Sulla vicenda ex ILVA, che già dal dicembre 2020 è la nuova società partecipata dallo stato ribattezzata Acciaieria d’Italia, è necessario fare subito chiarezza su alcune situazioni. Le cronache di questi giorni stanno riportando delle dichiarazioni confuse che non possono non allarmare chi opera nella fabbrica.
Siamo in una situazione di grande crisi e sembra esserci una volontà a non comprendersi e a non instaurare un dialogo propositivo perché si possa in modo trasparente avviare le azioni necessarie. Non può la cattiva politica prevalere sugli interessi territoriali e nazionali e sulla vita dei lavoratori.
Vengono riportate notizie sulla possibilità di arrestare le produzioni dell’area a caldo in vista delle decarbonizzazioni e tutto ciò appare privo di ogni logica in una sana gestione industriale: di fatto è già ben noto che la fabbrica senza area a caldo non può funzionare e si rischia di azzerare un patrimonio industriale di enorme valore.
Oggi, le emissioni inquinanti, per effetto degli interventi previsti ed eseguiti per le prescrizione AIA (Autorizzazione Integrale Ambientale), sono tutte entro i limiti previsti dalla legge come da puntuali rilevazioni ARPA.
Ed è davvero poco comprensibile come in una struttura impiantistica come quella di Taranto, che ha tre altiforni disponibili, se ne utilizzino oggi solo due, pur avendo un terzo altoforno fermo e pronto a partire e che abbia pianificato produzioni per il corrente anno di solo 4 milioni di tonnellate di acciaio e per l’anno 2024 produzioni di 5 milioni di tonnellate di acciaio. La marcia con i tre altiforni, con una fabbrica ben funzionante, consente produzioni di circa 6 milioni di tonnellate e questo sarebbe possibile da subito in quanto l’AIA consente tale produzione.
Si intravedono in questa carenza operativa pesanti responsabilità aziendali.
Si fa invece un gran ricorso alla cassa integrazione e si organizza una pianificazione del “non produrre”, e non certamente per crisi di mercato ma per motivazioni non ben dichiarate e poco trasparenti. Di fatto, è ben noto che l’azienda ha una crisi di liquidità che le impedisce di produrre non potendo acquisire le necessarie materie prime o le attività di supporto per il funzionamento degli impianti. Ed è questo il vero problema da risolvere!
Nel frattempo, però, si compiono fantastiche evoluzioni sulle conversioni della fabbrica (che invece continuando così, non ha alcun futuro) e si mettono in campo opzioni e visioni futuribili per la riduzione dei “gas serra” nella produzione di acciaio. Relativamente ai progetti di maggiore complessità come la decarbonizzazione con la produzione di DRI e utilizzo di forni fusori elettrici, questi rappresentano un futuro, un cambiamento ed una transizione verso l’acciaio “green” che non può essere utilizzata in alcun modo come pretesto e che nulla ha a che fare con una ripresa produttiva che riteniamo debba essere immediata.
E’ davvero un peccato che la fabbrica Tarantina, non riesca ancora a decollare in termini di produzione di acciaio e di risultati economici per avviare, finalmente, quella conversione che in molti paesi si sta concretamente mettendo in moto. Siamo pertanto di fronte ad un controsenso industriale ad un vero e proprio paradosso.
Le società Invitalia e Arcelor Mittal, pur dando loro atto della difficile situazione della fabbrica (ancora oggi sotto sequestro), non sembrano raccogliere le reali necessità di questo complesso industriale, mostrano segnali di reciproca diffidenza per interessi, forse, contrastanti (il colosso Arcelor Mittal, è di fatto una società concorrente) e, fatto estremamente grave, perdurano da oltre un biennio azioni non coerenti con la normale funzionalità e gestione degli impianti in termini di carente manutenzione, gestione delle scorte e dei ricambi: così proseguendo, il risultato sarà solo quello di una perdita del patrimonio industriale che va gradualmente degradando con rischi di accidentalità, fermi impiantistici e disservizi ambientali.
Certamente non è colpa dei dirigenti operativi delle varie aree produttive, ridotti ad esecutori di direttive imposte dal top management ed espropriati del loro ruolo e che in questa situazione devono essere tutelati per recuperare il loro ruolo.
Occorre uscire dal “pantano”. Sembra la classica “patata bollente” che viene scansata dalle forze politiche. E stiamo parlando della fabbrica più importante del paese, indispensabile per il settore meccanico e per lo sviluppo del quale negli anni passati sono state spese tante risorse pubbliche.
Come associati alla FEDERAZIONE DIRIGENTI richiediamo un urgente riscontro per conoscere come sarà affrontato e risolto il problema delle ridotte produzioni nella fabbrica di Taranto.
Per scaricare l’articolo in pdf premi Comunicato della delegazione di Taranto di FEDERMAGER PUGLIA